Dall’esilio all’America, verso la gloria universale: il sogno di un ragazzo che è rimasto italiano
venerdì 28 febbraio 2020 · Amarcord
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Mario Andretti compie ottant’anni, iridato in Formula 1 nel 1978, poleman al debutto come prima di lui ha fatto solo Baghetti, vincente nelle classiche di Indianapolis, Daytona e Sebring, ma pure campione nelle serie americane oltre che pilota del secolo nel 1999 per Associated Press, a pari merito con AJ Foyt.
Praticamente, il più bravo e medagliato di una dinastia che copre una fascia estesa di corse e categorie motoristiche. Piede pesante, non a caso Clark lo qualifica Piedone quando l’incontra nel 1964 sulla pista di Penske nel New Jersey. E quel soprannome l’accompagna per sempre.
Fin qui il palmares e le note di colore, ma la sua è storia esemplare anche oltre i confini dello sport. Andretti nasce il 28 febbraio del 1940 a Montona, nell’Istria, nella provincia di Pola. Da quelle zone, che vengono destinate alla Jugoslavia comunista, deve andarsene nel dopoguerra, all’età di otto anni, verso un campo profughi a Lucca: “Solo chi ci è passato può capire”.
Sono gli anni dell’esodo giuliano dalmata, Andretti trova sistemazione come meccanico in un’autorimessa e si avvicina alle corse. Ma la prospettiva è incerta pure in Italia, per cui il 1955 è l’anno del secondo trasferimento, verso l’America stavolta, Pennsylvania, a Nazareth, dove la passione fervente per le corse lo divora e ne fa un campione.
Andretti a Montona ci torna negli anni Duemila. Sulla casa dov’è nato, vicino alla chiesa di san Cipriano, c’è una targa: “Qui è nato il campione del mondo 1978 di Formula 1”. Che oggi è sindaco degli esuli, la comunità di chi se n’è dovuto scappare verso l’ignoto. In un’intervista dice:
Ho iniziato dal nulla, ho avuto la mia chance e ce l’ho fatta. C’è tanto del sogno americano in tutto questo, ma la mia vita resta il raggiungimento del sogno di un ragazzo italiano.