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Gedda, una corsa contro il tempo per finire la pista. Con l’ombra della schiavitù legalizzata
mercoledì 10 novembre 2021 · Politica
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Quattro settimane all’esordio dell’Arabia Saudita nel mondiale di Formula 1, il paese ha già allestito il programma degli spettacoli di contorno: Dj Snake venerdì, Jason Derulo e Dj Tiesto sabato, gran finale con Justin Bieber, A$AP Rocky e David Guetta domenica sera.
Ma Gedda corre contro il tempo per completare la pista, senza la quale chiaramente salta tutto. Michael Masi per conto della Fia ha fatto diverse ispezioni fra un Gran Premio e l’altro, non nasconde niente:
FIA and F1 are getting daily updates. It’s progressing very, very quickly. Yes, there’s a lot to do. There’s nothing to deny there. I think everyone will acknowledge there’s a lot to do. But I’m still confident of the race going ahead.
Cita il precedente della Corea, l’omologazione di Yeongam nel 2010 solo nove giorni prima dell’inizio delle prove libere. E la situazione a Gedda grossomodo è quella, lo dimostra il video ufficiale sullo stato di avanzamento dei lavori alla data del 3 novembre: ponteggi dovunque, box da completare, asfalto da stendere, guardrail e reti da installare. L’inviata della Fom è Rosanna Tennant, compiaciuta e raggiante annota: “Come vedete alle mie spalle, i lavori sono a buon punto”.
È indicativa quest’azione coordinata e aggressiva da parte di Liberty Media per convincere il mondo che non fu azzardo la firma per un Gran Premio senza che il circuito esistesse nemmeno in bozza a un anno dalla data d’esordio. Perché in effetti al fallimento dell’operazione non ci crede nessuno, la dinastia saudita e gli sponsor hanno mille risorse. Per quanto il prezzo resti altissimo e non trasparente.
In termini sociali, soprattutto: Amnesty ha già denunciato – come per altri paesi dell’area mediorientale, inclusi Bahrain e Qatar che pure ospitano il circo dei motori – il sistema della kafala che impedisce ai lavoratori migranti di lasciare il paese o anche solo cambiare impiego senza il permesso dei datori di lavoro.
Di fatto, una schiavitù legalizzata che determina vulnerabilità a sfruttamento e abusi. Che evidentemente si nascondono anche dietro l’immagine dello sport.