Donne e Dakar, la questione saudita
mercoledì 6 gennaio 2021 · Fuori tema
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Si è chiusa con il 2020 la parentesi sudamericana della Dakar che dopo undici edizioni fra Argentina, Cile, Paraguay e Perù migra verso i deserti dell’Arabia Saudita. Potere del petrodollaro, che già ha conquistato anche la Formula 1.
Sono in nove le donne nella carovana, quattro in moto, quattro in auto, una in quad. È un punto cruciale, un elemento contraddittorio fortissimo rispetto al conservatorismo del mondo saudita, che limita fortemente la partecipazione delle donne alla vita pubblica e ha concesso le prime patenti alle donne solo nel 2018. E comunque dopo una battaglia lunghissima che ha portato diverse attiviste in carcere.
Grant Liberty è un organismo di difesa dei diritti umani a favore dei prigionieri sauditi, una portavoce riferisce:
It is utterly grotesque that at the same time Saudi authorities will host a motor sport event, including women drivers, while the heroes that won their right to drive languish in jail.
Il caso più eclatante è quello di Loujain Alhathloul, che tra l’altro è nata proprio a Gedda, la città che ha ottenuto la Formula 1: è leader del movimento che si è battuto per la sospensione del divieto che proibisce la guida alle donne saudite, è stata arrestata nel 2018, in carcere ha subito torture e abusi sessuali, a dicembre lo stato l’ha condannata a cinque anni di reclusione.
La casa reale sostiene che la battaglia per le donne alla guida non c’entra con l’arresto, l’accusa sarebbe di violazione delle norme per la sicurezza nazionale, di trattative con paesi non amici. C’è una petizione di Amnesty. E la scarcerazione adesso è un nodo determinante nei rapporti dell’Arabia Saudita con l’America dopo Trump.
Intanto l’automobilismo sportivo resta uno strumento politico prodigioso per ripulirsi la reputazione. C’è tanto nero, dietro l’immagine rassicurante e progressista della donna saudita che ha guidato una Formula 1 e ha premiato Hamilton ad Abu Dhabi. Nero dientro la Dakar. Nero dietro la Formula 1.