Perez e il Gran Premio del Messico contro il muro di Trump. E forse contro la legge della Fia
domenica 12 febbraio 2017 · Fuori tema
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La stretta sull’immigrazione, la sospensione per quattro mesi del programma sui rifugiati, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di Iran, Iraq, Yemen, Somalia, Sudan e Libia. E ancora, nel piano di Donald Trump per la tolleranza zero, quel muro al confine col Messico, “impenetrabile, alto, imponente e bello”.
Nasce da qui la campagna degli organizzatori del Gran Premio del Messico, col sostegno aperto di Sergio Perez, contro i provvedimenti del nuovo presidente: Bridges Not Walls, ponti non muri, come diceva papa Francesco ai giovani a luglio.
Perez già s’era schierato, chiaramente col suo paese: a novembre ha lasciato Hawkers, la multinazionale degli occhiali da sole, dopo un tweet politicamente scorretto all’indirizzo dei messicani all’indomani della scalata di Trump alla Casa Bianca.
Oggi al di là dei contenuti umani e dei toni pacifici, resta il fatto che la campagna del Gran Premio del Messico, quel banner sul rettifilo dell’autodromo, il logo della Formula 1, la data del Gran Premio vicino all’hashtag dell’azione contro Trump, rischia di scontrarsi con i principi della Federazione. Che da sempre si autoproclama apolitica e come tale punisce ogni condotta a contorno politicizzato, a prescindere dai colori degli schieramenti.
Nel 2006 gli organizzatori del Gran Premio di Turchia si prendono due milioni e mezzo di multa dalla Fia perché Mehmet Ali Talat partecipa alla cerimonia di premiazione in veste di presidente “della Repubblica Turca del Nord di Cipro” che i trattati internazionali non riconoscono.
E certe regole valevano anche per Bernie Ecclestone. A Jerez nel 1997 – nella gara dell’incidente tra Schumacher e Villeneuve – il sindaco forza il protocollo per andare sul podio a consegnare il trofeo. Ecclestone gli promette: “Mai più un Gran Premio a Jerez”. E mantiene la parola.