Da Indy ad Austin, passando per il Glen: tutte le piste dove ha corso la Formula 1 negli Stati Uniti

giovedì 20 ottobre 2016 · Amarcord
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È amore e odio, tira e molla, il rapporto controverso tra Stati Uniti e Formula 1. Prova ne sia il fatto che Austin rappresenta la decima location che gli States impiegano per la Formula 1 dopo Indianapolis, Sebring, Riverside, Watkins Glen, Long Beach, Las Vegas, Detroit, Dallas e Phoenix. Stupende alcune, effimere altre.

Indianapolis. La 500 Miglia ha valenza iridata dal 1950 al 1960, ma si corre con un regolamento tecnico diverso e per l’Europa conta zero. Tant’è che le squadre puntualmente la disertano. Così la Formula 1 decide di farne a meno. Indy nel mondiale ci ritorna nel 2000. Ecclestone dice: “In qualunque posto del mondo conoscono Indianapolis. A noi serve un posto così”. Nel 2005 gareggiano solo in sei – Ferrari, Jordan e Minardi – per via del ritiro in massa di Michelin.

Sebring. Occupa una parte dell’aeroporto regionale che fu base dell’aviazione americana e oggi fa da scalo commerciale. Nel 1959 è sede del primo Gran Premio degli Stati Uniti propriamente detto. Brabham conduce, resta senza benzina all’ultimo giro e si classifica quarto spingendo la Cooper in salita. Collassa, ma il suo destino verso l’iride è compiuto. È un finale al cardiopalma e sono in quindicimila appena a goderselo; a Sebring la Formula 1 non ci torna.

Riverside. Nel deserto di San Bernardino, praticamente a casa di Gurney. Mancano le strutture più elementari, non ci sono nemmeno i box, le squadre allora preparano le auto in città, i piloti le portano in pista percorrendo le strade ordinarie. Sui quotidiani locali non c’è nemmeno una riga, comprano il biglietto meno di 25 mila. Pure Riverside entra nell’elenco delle piste una tantum.

Watkins Glen. Nei pressi del lago Seneca nello stato di New York, nasce nel 1953 quando Cameron Argetsinger sposta le corse in collina dopo un incidente mortale in città. Il disegno è pericolosissimo e subisce una rivisitazione significativa. Resta indissolubilmente e drammaticamente legato all’incidente orribile di Cevert.

Long Beach. Nella contea di Los Angeles, è la pista che ha messo fine alla carriera di Regazzoni. Debutta nel 1976, nelle intenzioni deve ricreare Montecarlo, ma secondo Lauda è “più facile e sconnessa”. La promozione è aggressiva, la mente è Chris Pook, è sempre lui che nel 2014 cerca di riproporre il progetto a Ecclestone.

Las Vegas. Nella patria del gioco, si corre negli anni Ottanta nel parcheggio del Caesars Palace, su un tracciato senza varietà di curve, veloce per gli standard dell’epoca e piatto come un biliardo. Due edizioni in tutto, entrambe decisive per l’assegnazione del titolo nel 1981 e nel 1982. Ma si gareggia anche nell’83 e nell’84 per la Formula Cart. Non più fruibile dopo la ristrutturazione dell’area.

Detroit. Su fondo sconnesso, è la pista che Prost e Piquet contestano pubblicamente. Ma è un successo nella colonizzazione dell’America perché con il debutto a Detroit nel 1982 la Formula 1 ha tre gare negli Stati Uniti.

Dallas. Altro fiasco sotto il profilo dell’organizzazione e dell’interesse del pubblico: la prima e ultima edizione è del 1984, l’asfalto non regge, la sicurezza è precaria. L’altro pericolo è il caldo: la corsa è anticipata alle 11 per sfuggire al solleone. Mansell per l’afa accusa un malore mentre spinge sul traguardo la Lotus.

Phoenix. L’esordio è del 1989, l’affluenza è minima, il caldo è disumano. E la pista per l’ennesima volta non è il massimo: cittadina, meno di quattro chilometri, undici curve ad angolo retto, tutte uguali. Eppure, in ballottaggio c’era Laguna Seca: decentrato e angusto l’aveva giudicato la Formula 1.

Austin. La pista che riconcilia la Formula 1 con l’America. Impianto ultramoderno, un autodromo permanente in controtendenza negli anni dei tracciati cittadini. Spettacolare l’arrampicata verso la prima curva, cieca, il punto più alto del circuito.

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