L’Indycar piange Justin Wilson. E la Formula 1 sente la chiamata sulla sicurezza
martedì 25 agosto 2015 · Dal paddock
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È un lutto che la Formula 1 sente suo. Da un lato perché il dramma di Jules Bianchi è troppo recente, ha unito i piloti e gli addetti ai lavori, praticamente ha acuito la sensibilità sul tema della morte in pista. Dall’altro perché lui, Justin Wilson, classe 1978, in Formula 1 c’era stato dieci anni fa e s’era fatto tanti amici.
Soprattutto alla Red Bull, quando a Milton Keynes ancora c’era la Jaguar: “E in effetti qua in sede – dice Chris Horner – se lo ricordano tutti come un ragazzo bravo e gentile”.
Alla Jaguar c’era finito nel 2003 a metà campionato, attraverso una mossa di mercato a sorpresa, dopo il debutto fortunato che s’era procurato alla Minardi, sostanzialmente vendendo le azioni di se stesso. Del suo trascorso a Faenza resta impresso quello sprint poderoso al via del Gran Premio di Malesia, da diciannovesimo a ottavo al primo giro.
L’anno dopo gli erano mancati i fondi per trovarsi un volante migliore. E come fanno tanti, aveva capito che il futuro era altrove.
L’America quindi, le gare sugli ovali e l’Indycar. A Pocono, in Pennsylvania, domenica l’hanno travolto i detriti dopo l’incidente di Sage Karam. Il trauma cranico non gli ha lasciato scampo. È morto lunedì notte. Aveva disposto la donazione degli organi e ha salvato sei vite.
Il caso ha voluto che esattamente una settimana fa il gruppo tecnico della Formula 1 avesse cominciato a riparlare della protezione degli abitacoli, un concetto su cui la Fia fa sperimentazione dal 2009, dopo i casi di Felipe Massa a Budapest e Henry Surtees a Brands Hatch.
Max Chilton nel 2011 al Nürburgring s’è ritrovato con la visiera squarciata da un ciottolo. L’anno scorso una gomma gli ha sfiorato il casco dopo l’incidente di Raikkonen. Una nuova spinta alla ricera delle soluzioni per proteggere il pilota l’ha data l’episodio di Alonso e Raikkonen in Austria. La dinamica dell’incidente fatale di Wilson adesso ne fa un atto d’obbligo.