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Il fattore rischio: da Nuvolari a Simonsen, se il lieto fine non è garantito

lunedì 24 giugno 2013 · Amarcord
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A Olivier Gendebien, l’idea di smettere venne a Le Mans, mentre passava in mezzo a dei rottami: “Ho una moglie e tre figli. Non ho bisogno delle corse per guadagnarmi da vivere. Rischio la vita e non mi diverto neanche più”. E Le Mans sabato pomeriggio s’è portata via Allan Simonsen al quarto giro di gara nell’incidente alla curva Tertre Rouge.

Peter Garnier negli anni Sessanta scrisse un libro sul Gran Premio di Monaco e si chiedeva: “Chissà se un pilota quando chiude la porta delle camera si domanda se la sera la riaprirà”. Perché nell’automobilismo il lieto fine non è garantito. Diceva Patrick Tambay: “Penso spesso alla morte, sperando che lei non pensi a me”.

Tazio Nuvolari, quando ancora la Formula 1 non esisteva, ad Enzo Ferrari con l’ironia sua faceva notare un particolare: “Spendi male i soldi. Mi hai preso un biglietto di andata e ritorno per il viaggio e ti sei sbagliato. Dovevi prenotare solo l’andata, perché può sempre capitare di rientrare in una cassa di legno”.

La realtà delle gare d’auto è storia atroce. Lo sapeva Alberto Ascari: “I miei bambini non devono affezionarsi troppo a me. Perché un giorno potrei non tornare e loro ne soffrirebbero”. Vent’anni dopo, Jackie Stewart diceva: “Ho perso troppi amici nelle corse. Quando sono arrivato a cinquanta  ho smesso pure di contare”. Un po’ come Chris Amon: “Pensavo di dedicare un capitolo del mio libro agli amici morti. Ma l’elenco è troppo lungo”.

Mette i brividi una vecchia intervista di Ayrton Senna sul tema della morte. “Non mi fa paura. Ma ogni volta che parlo con Dio, che un giorno me la presenterà ufficialmente, appena di questo lo prego: fallo subito e bene. Mi terrorizza l’ipotesi di farmi male”.

È anche per effetto dell’incidente di Ayrton se oggi, tra miglioramenti di sicurezza attiva e passiva, la realtà dei Gran Premi non è cruenta com’era una volta: “Se le corse fossero ancora pericolose – spiegava Mario Andretti – non esisterebbero più. I costruttori, gli sponsor e le televisioni non accetterebbero di essere associati a massacri”.

La componente di pericolo comunque sopravvive: “Però – conviene Kimi Raikkonen – è meglio pensarci solo dopo”. Perché prima c’è il piacere del brivido. Nel 1968, all’indomani del decesso di Jim Clark, sulle colonne di Autocar c’era una lettera di Innes Ireland che a un certo punto scriveva: “A chi ancora si sta interrogando sulla saggezza di gente che rischia la propria vita al volante di una macchina da corsa, dico che l’automobilismo è la più eccitante, coinvolgente, entusiasmante e soprattutto appagante disciplina a cui possa dedicarsi un uomo con sangue rosso nelle vene”.

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