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Ferrari, dentro la sentenza: team order? No, team strategy
giovedì 9 settembre 2010 · Dal paddock
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Vale la pena darci uno sguardo, agli atti della non sentenza sull’affare Hockenheim. Magari per capire il senso delle parole di Jean Todt, che archivia il primo caso serio del suo mandato a Place de la Concorde e ricorda: “Prima di dire che sei colpevole, è necessario dimostrare che lo sei”.
Quelle che aveva in mano il Consiglio Mondiale per il processo alla Ferrari non erano solamente le prove raccolte in Germania, perché fra luglio e agosto la Federazione ha fatto altre analisi. Scoprendo che Massa e Alonso avevano ridotto il regime di rotazione a metà gara, e che prima del sorpasso soltanto Fernando era tornato sui valori standard, “col beneficio di un vantaggio di prestazioni su Massa”.
Delegato all’attività istruttoria per il caso Hockenheim era Lars Österlind che nel report faceva notare: “Non si può negare che il risultato della corsa sarebbe stato differente se a Massa non fosse pervenuta un’istruzione discutibile”.
Perciò l’accusa chiedeva la conferma della sanzione pecuniaria, oltre che la cancellazione dei punti con sospensione della pena e, soprattutto, 5 secondi di penalità per Alonso, quanti ne bastavano per tirarlo giù al secondo posto e tenerlo comunque davanti a Vettel.
La difesa invece si è aggrappata ai dizionari, perché “gli ordini di squadra – dice la Ferrari – non sono le strategie di squadra”. Insomma Massa s’è fatto da parte, da bravo ragazzo – “good lad” come l’aveva chiamato il suo ingegnere – perché le rosse non ci tenevano a finire com’erano finite le Red Bull a Istanbul.
Ancora, dicono gli avvocati del Cavallino: “Il divieto che è contenuto nelle regole si applica quando c’è un ordine chiaro”. Non si è applicato, per esempio, “nel 2008 in Germania, dove Kovalainen ha dato strada a Hamilton a 9 giri dalla fine”, oppure quest’anno in Turchia, quando “Hamilton e Button si sono sorpassati per il primo e secondo posto” e dal team è partito “il messaggio di save-fuel” che poteva essere “un’informazione in codice per tenere le posizioni”.
Ci sarebbe pure il Gran Premio del Brasile del 2007, dove fu Massa a fare un giro di rientro lentissimo dal pit-stop per dare la vittoria a Raikkonen. Oppure il Gran Premio di Cina del 2008, dove toccò a Kimi spostarsi per lasciare a Felipe la piazza d’onore. Dettagli. Sono sfuggiti – casualmente? – alla Ferrari nel riepilogo.
Alla fine, a Parigi, il Consiglio Mondiale la grazia l’ha concessa, per “incoerenza dell’applicazione del concetto di ordine di squadra negli anni recenti” e per la stessa motivazione che salvò la McLaren dopo Monaco nel 2007, “legittima apprensione nell’evitare un incidente fra i piloti”.
La verità, al di là delle trascrizioni ufficiali, è che la Scuderia la scampa non tanto perché s’è difesa alla grande sul piano giuridico e nemmeno perché è vicina a Todt. Ma perché la FIA recepisce l’umore del paddock su una norma comunque inapplicabile che va stretta un po’ a tutti.
Tant’è che al processo acquisisce “le lettere di Mr. Frank Williams e Mr. Peter Sauber a sostegno della Ferrari”. E Whitmarsh ad agosto già diceva che “i regolamenti vanno rivisti per evitare ipocrisie”. La multa resta perché “non c’è stato appello” e perché il Consiglio Mondiale “supporta gli steward (di Hockenheim)”. Ma dall’8 settembre 2010, la Formula 1 è ufficialmente uno sport di squadra.