L’affare customer car dietro il fallimento del team di Aguri Suzuki
martedì 20 maggio 2008 · Politica
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Si chiamano customer car, sono le vetture clienti che i grandi costruttori dovrebbero rivendere ai piccoli team dopo averle impiegate nel campionato precedente. Un’idea che Max Mosley ha in cantiere da anni, la stessa che nel 2006 ha convinto Aguri Suzuki a fondare una squadra tutta sua, recuperando due vecchie Arrows in attesa dei telai dell’Honda.
Ne avrebbe giovato anche David Richards con Prodrive, che voleva debuttare a marzo per gareggiare con le McLaren del 2007. Invece a novembre la Williams ha presentato ricorso: “Un team senza uno staff e senza i mezzi che noi abbiamo messo insieme in 25 anni, che si limita a comprare delle macchine per correre – sostiene Patrick Head – per noi è una minaccia commerciale”.
La Fia prende tempo. Anche perché c’è ancora in sospeso l’arbitrato che la Spyker aveva chiesto nel 2007 e che adesso viene portato avanti da Force India.
Nel frattempo Prodrive resta a casa, la Super Aguri dichiara bancarotta e Dietrich Mateschitz che non può riciclare le Red Bull valuta di cedere la Toro Rosso al miglior offerente, qualcuno che riesca a costruirsi una macchina in completa autonomia delegando esclusivamente la fornitura di motori.
Il rischio è che Bernie Ecclestone si ritrovi con la griglia corta a 18 vetture, due appena sopra il minimo sindacale che per contratto viene assicurato alle televisioni. Scatterebbe allora un provvedimento che il vecchio Patto della Concordia già contempva: obbligare i team maggiori a schierare la terza macchina.
Perché a Bernie non va di rattoppare il paddock con le customer car: “Dobbiamo tornare alle origini. Chi vuole stare in Formula 1 deve essere in grado di progettare e costruirsi da solo la macchina”. Come sostiene anche Luca di Montezemolo. Con buona pace di Aguri Suzuki.